#WeeklyUpdates | Locazione ad uso commerciale ai tempi del Coronavirus: la pronuncia del Tribunale di Bologna
“La locazione è il contratto col quale una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo” (art. 1571 c.c.)
Fra i contratti di locazione, sussistono delle differenze tra quelli aventi ad oggetto un immobile ad uso abitativo e quelli ad uso commerciale, in virtù della destinazione d’uso attribuita e riconosciuta all’oggetto in locazione.
In relazione alla locazione c.d. “commerciale” – disciplinata dalle norme generali sulla locazione previste nel codice civile e dalla legge 27 Luglio 1978 n. 392 – essa si riferisce a quei contratti relativi ad immobili destinati ad uso commerciale ovvero utilizzati per avviare o continuare un’attività economica di natura personale e/o imprenditoriale.
La recente pandemia da Coronavirus ha inciso in maniera rilevante anche sui rapporti commerciali e privatistici cosicché da costringere il Governo a regolare, in via emergenziale, anche la materia della locazione ad uso commerciale.
I nostri tribunali si sono trovati improvvisamente a costretti a gestire le numerose istanze promosse dai cittadini più in difficoltà, tra cui emblematico è il caso sottoposto all’attenzione del Tribunale di Bologna relativo ad un rapporto contrattuale derivante da un contratto di affitto ad uso commerciale per un centro estetico costretto alla chiusura nel periodo emergenziale dell’epidemia Covid-19.
L’adito tribunale bolognese pronunciava, con decreto n. 4976/2020 del 12 Maggio scorso, provvedimento favorevole all’istante ordinando, infatti, al locatore convenuto di non incassare gli assegni del canone locatizio per il periodo afferente ai mesi di lockdown.
A sostegno della propria domanda,la titolare del centro aveva rappresentato l’impossibilità di procedere al pagamento dei canoni per la chiusura dell’attività lavorativa dal 24 febbraio 2020 al 18 giugno 2020, evidenziando di aver avviato concrete trattative con l’affittuario allo scopo di ridurre l’importo del canone per il periodo “cuscinetto” fra il mese di Aprile 2020 fino a Settembre del 2020.
La ricorrente, inoltre, – che aveva in precedenza già provveduto alla dazione di assegni bancari a garanzia del pagamento dovuto in virtù dei canoni di locazione – evidenziava come, a causa della crisi, l’eventuale l’incasso degli stessi le avrebbe arrecato dei pregiudizi in virtù dell’eccezionalità della situazione che non le aveva permesso di versare il denaro per coprire l’importo degli assegni.
Il Giudice adito, in accoglimento della domanda attrice, ha ordinato di non mettere all’incasso gli assegni: con ciò si è in effetti evidenziata la difficoltà di sostenere costi di tale natura senza poter contare sugli introiti ricavati e ricavandi dalla propria attività lavorativa.
Il caso prospettato non si presenta come isolato ed unico: seppur cessato il periodo rigido di lockdown emergenziale, la crisi si palesa oggi anche in ragione del decremento di redditività subito dalle aziende, oppure per i costi relativi alle misure di sicurezza che l’imprenditoria si è trovata ad affrontare.
E a ben vedere, nonostante la materia della locazione sia stata oggetto di valutazione e interesse del “Decreto Cura Italia” e nonostante la disciplina legislativa per il tramite dell’art. 1460 c.c. prevedeva già una tutela del locatore, le risposte del governo risultano, ad oggi, ancora parziali, insufficienti e insoddisfacenti a garantire una tutela erga omnes.
Il Governo ha previsto, infatti – ma esclusivamente a favore di negozi e piccole botteghe, ovverossia i locali rientranti nella categoria catastale C1– l’imposizione di un credito di imposta pari al 60% dell’ammontare del canone di locazione per il mese di marzo 2020, lasciando senza alcuna disciplina garantista magazzini, uffici, ed altri locali ad uso commerciale non rientranti nella categoria.
E’ vero che, per ipotesi del genere, la disciplina codicistica regola alcuni esperibili rimedi generali (cfr. il recesso per gravi motivi, la proposizione di una domanda di risoluzione per impossibilità sopravvenuta o per eccessiva onerosità sopravvenuta); tuttavia, è bene ricordare che questi ultimi portano inevitabilmente allo scioglimento del vincolo contrattuale, ipotesi che in situazioni del genere non possono ritenersi satisfattive delle esigenze di chi acconsentirebbe ad una rivisitazione temporanea delle condizioni di contratto ma di rado accetterebbe un suo scioglimento.
Quali soluzioni, dunque?
La soluzione più immediata sarebbe un accordo inter partes, che spesso, tuttavia ha poche possibilità di successo nell’essere raggiunto.
In via alternativa, non rimane che applicare l’istituto della “rinegoziazione”: a causa di eventi sopravvenuti alla stipula di un contratto e che ne modificano l’equilibrio iniziale, le parti cooperano alla rinegoziazione del contratto, per poter rendere il contenuto dello stesso quanto più possibile vicino agli interessi sopravvenuti dei contraenti senza venire meno al patto ex antesottoscritto.
Infine, se è vero com’è vero che ogni Giudicante è prima umano, in virtù dei poteri di discrezionalità ad essa riconosciuti, la magistratura, interpellata e chiamata a pronunciarsi in casi similari, non potrà non tenere conto della posizione di debolezza del conduttore che non avendo potuto esercitare la propria attività produttiva, trovandosi in carenza di proventi per far fronte ai propri impegni, confida nella giustizia sostanziale e, prima ancora, nella tolleranza della propria controparte contrattuale.
Dott.ssa Marilena Forte