#WeeklyUpdates | Addio ai “fannulloni” ed ai “mammoni”: lo chiarisce la sentenza della Cassazione n. 17183/20
Il dovere al mantenimento è sancito dagli artt. 30 Cost., 147 e ss. c.c., nonché rafforzato dall’art. 155-quienquies della L. n. 54/2006; si tratta, però, di un obbligo dalla “durata mutevole” (Trib. Novara n. 238/11). L’unico limite è, infatti, rappresentato dall’indipendenza economica, concetto più volte definito dalla stessa giurisprudenza. Secondo l’orientamento prevalente si parla di indipendenza economica allorquando il ragazzo abbia un lavoro part-time, un dottorato di ricerca, o la continua reiterazione di un contratto di lavoro a tempo determinato; insomma purché lo stesso abbia un reddito/patrimonio “per tentare di rendersi autonomo economicamente”.
Il mantenimento ha una funzione educativa, da stabilirsi però in base alle capacità economiche sino a quando il ragazzo abita insieme ai genitori: non può trattarsi di una rendita infinita.
Il dato più sconcertante è che solo in Italia si mantengono i figli oltre i 30 anni: secondo l’Eurostat i ragazzi che tra i 18-35 anni vivono ancora insieme ai genitori rappresentano il 67%, con quasi 20 punti di differenza rispetto alla media europea.
È necessario, dunque, un’inversione di tendenza.
Con la sentenza della Cassazione, Sezione I civile n. 17183 del 14 agosto 2020, i giudici confermano l’obbligo del figlio maggiorenne di attivarsi per trovare un lavoro per rendersi autonomo, dopo aver terminato gli studi, che siano quelli dell’obbligo o una laurea specialistica.
Il caso giuridico, piuttosto curioso, è quello di una madre che ricorre ai Giudici di legittimità per impugnare una sentenza del Tribunale di Firenze, la quale revocava l’assegno di mantenimento dell’ex marito in favore del figlio trentenne insegnante di musica precario con un reddito annuo pari a 20.000 euro.
La ratio sottesa a tale decisione è quella di evitare che si finisca in un “abuso di diritto” ad essere mantenuti. Dunque, stop al mantenimento dei figli maggiorenni che non si attivano per cercare un lavoro e/o non si accontentano di una posizione diversa da quella ambita: a tal proposito la sentenza in commento afferma che è necessario “abbassare le aspettative adolescenziali ed adattarsi anche se non si tratta di un lavoro da lui preferito”.
Questa affermazione non vuole impedire la realizzazione dei sogni di ciascuno di noi: è solo che ad un certo punto l’ambizione dovrà cedere il passo al dovere di diventare indipendenti economicamente. Ma attenzione: non tutti quelli che restano a casa con i genitori lo fanno in assenza di un’occupazione; vi è, infatti, l’ipotesi in cui sussistano cause oggettive come l’impossibilità di trovare lavoro per cause a lui non imputabili e/o il non aver trovato un altro impiego diverso da quello ambito. Diversamente, è configurabile l’esonero dall’assegno di mantenimento in caso di rifiuto ingiustificato della proposta di lavoro e/o la colpevole inerzia prorogando il percorso di studi senza un effettivo rendimento. L’onere probatorio ricade sul genitore che richiede di essere esonerato dall’obbligo.
Dopo i 30 anni cessa, dunque, in modo definitivo l’obbligo di mantenere i figli, lo stesso vale sia per chi vive in una famiglia facoltosa che in quella di condizioni più modeste, perché il figlio non può pretendere “che a qualsiasi lavoro si adatti esclusivamente, in vece sua, il genitore”.
Con la sentenza della Cassazione si realizza un passaggio dal principio del “diritto ad avere diritti” ad un concetto di dovere da parte del figlio maggiorenne, dall’assistenzialismo al principio di auto responsabilità secondo cui il figlio “deve rimboccarsi le maniche nella ricerca del lavoro e non approfittare dell’aiuto di mamma e papà”. A sostegno di tale tesi, emerge poi una sorta di disparità di trattamento nei confronti dei figli coetanei che, al contrario, si sono resi autonomi.
La stessa decisione, infine, stabilisce che se il figlio continua a percepire il beneficio può essere condannato a restituire le somme.
Dott.ssa Paola Blaiotta