#WeeklyUpdates | Gli animali non si toccano: disamina sul reato di maltrattamenti degli animali
Tra i diversi interventi legislativi, modificativi e/o integrativi della normativa vigente che si sono resi necessari negli ultimi periodi, una menzione speciale, ad avviso di chi scrive, merita la L. N.189 del 20 Luglio 2004 che ha introdotto, nel codice penale italiano un nuovo Titolo bis, al Titolo IX già esistente, contenente tutta una serie di reati posti a tutela “del sentimento per gli animali”.
La coscienza legislativa, smossa dalle costanti ed insistenti richieste di intervento in materia di protezione e tutela degli animali da compagnia e non, a dimostrazione della necessità di adeguamento anche alla mutata considerazione sociale in merito al fenomeno che vede le associazioni animaliste in prima linea nella lotta al riconoscimento dello status dell’animale quale essere meritevole di tutela anche giuridica, ha trovato finalmente attuazione mediante la predisposizione di un sistematico reticolo di disposizioni punitive di condotte penalmente rilevanti poste a danno degli animali.
Particolare attenzione va dedicata, quindi, al nuovo art. 544 ter c.p., rubricato “Maltrattamento degli animali”, il quale si occupa sostanzialmente dello stesso delitto precedentemente disciplinato dall’art. 727 c.p. (oggi rubricato “Abbandono di animali”) fuoriuscendo dal novero della categoria delle contravvenzioni in armonia con la specifica ratio della legislazione speciale del 2004, nell’intento di valorizzare la soggettività, latu sensu intesa, dell’animale e della sua necessaria protezione, senza operare una precisa distinzione fra le diverse categorie di animali che rientrano nella sfera applicativa della nuova disciplina.
(Un esempio, che potremmo definire particolare, è la pronuncia di un Giudice di merito che riconosce la responsabilità penale per il reato de quo ai ristoratori che detengono pesci e crostacei vivi sul ghiaccio).
Ebbene, l’art. 544-ter c.p. recita nel modo seguente:
“ Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre mesi a un anno o con la multa da 3.000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi.
La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell’animale.”
Il reato in disamina è un reato a forma libera, in quanto realizzabile con qualsiasi tipo di condotta, anche singola, attiva e/o passiva, che risulti idonea a realizzare l’evento tipico della fattispecie ovvero la lesione psico-fisica o, nell’ipotesi aggravata, la morte dell’animale. Nello specifico, infatti, il 1° comma si riferisce ovviamente ai reati di evento: “prende in prestito” dall’art. 582 c.p. “lesione personale” l’uso della parola “lesione” nel riferirsi all’evento tipico del reato in esame, inteso come malattia psico-fisica e quindi di danno alla salute.
A tal riguardo, è stato appurato che, a differenza dell’art. 582, non è necessaria l’insorgenza di una “malattia nel corpo o nella mente”, a tal punto che una sempre più pregnante giurisprudenza ha ritenuto sufficiente, ai fini della configurabilità del delitto, la pregnante sofferenza dell’animale e la diminuzione della sua originaria integrità, come diretta conseguenza di una condotta volontaria, vuoi commissiva vuoi omissiva.
E’ risolutiva in tal senso la pronuncia N° 32837 del 2013 della Suprema Corte di Cassazione la quale ha espressamente evidenziato che “…Nel reato di maltrattamento di animali, la nozione di lesione, sebbene non risulti perfettamente sovrapponibile a quella prevista dall’art. 582 c.p., implica comunque la sussistenza di un’apprezzabile diminuzione della originaria integrità dell’animale che, pur non risolvendosi in un vero e proprio processo patologico e non determinando una menomazione funzionale, sia comunque diretta conseguenza di una condotta volontaria commissiva od omissiva….”.
Quindi anche laddove dalla condotta umana, posta in essere a danno di un animale indifeso, non derivi una lesione fisica in senso stretto, è legittimamente configurabile la fattispecie di cui all’art. 544-ter c.p. tutte le volte in cui l’animale subisca un considerevole ridimensionamento in peius delle sue capacità psico-fisiche.
Inoltre, la norma, sempre in riferimento alla forma libera della sua integrazione, riconduce nel suo ambito di disciplina anche tutte quelle condotte che assumono la forma delle sevizie, di azioni e/o omissioni che causano sofferenze insopportabili ed incompatibili con le condizioni fisiche dell’animale ed infine, poi, la somministrazione di stupefacenti o sostanze vietate, il c.d. reato di “doping” a danno di animali (art. 544 ter,comma II c.p.).
Dal punto di vista psicologico, il reato de quo è realizzabile a dolo specifico o a dolo generico se la condotta, commissiva od omissiva, sia posta in essere rispettivamente con crudeltà o senza necessità.
Sono eloquenti, in tal senso, diverse pronunce giurisprudenziali, risalenti nel tempo, che hanno offerto una precisa definizione del concetto di “crudeltà” – “…….la crudeltà è di per sé caratterizzata dalla spinta di un motivo abbietto o futile. Rientrano nella fattispecie le condotte che si rivelino espressione di particolare compiacimento o di insensibilità…” – (Cassazione Penale, N. 966819/1999) e dell’espressione “senza necessità”, non senza specificare che, in quest’ultimo caso, tale elemento deve essere necessariamente valutato non solo in base al combinato disposto degli artt. 52 e 54 del C.P. e (rispettivamente legittima difesa e stato di necessità) ma anche in merito alla massima giurisprudenziale del 1997 secondo la quale “…..il concetto di necessità identifica «ogni altra situazione che induce all’uccisione o al danneggiamento dell’animale per evitare un pericolo imminente o un danno giuridicamente apprezzabile»….” (Cassazione Penale, N. 1010/1997).
Ad ogni modo, la differente intensità del dolo integrativo della fattispecie determina, come ovvio, distinti risvolti pratici poi per la determinazione, da parte del Giudicante, della pena da comminare all’imputato, tanto è vero che l’art. 133, comma 1, N.° 3, c. p. indica anche l’intensità del dolo come uno dei parametri da seguire ai fini sanzionatori.
Deve mancare del tutto, invece, il dolo per la configurazione dell’aggravante indicata al III comma che comporta, appunto, un aumento di pena nel caso in cui dalla condotta delittuosa, tipica del reato de quo, derivi la morte dell’animale; ed infatti, in questa particolare ipotesi l’evento morte presuppone l’elemento soggettivo della colpa e non del dolo. In altri termini, l’agente realizza la condotta di maltrattamento a danno dell’animale, ma la morte che ne deriva deve essere una conseguenza non voluta, anche perché nel caso di morte voluta, e perciò dolosa, si configurerebbe il reato di “uccisione di animali” che è disciplinato dal precedente art. 544-bis c.p.: “chiunque per crudeltà o necessità cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni”.
La normativa italiana, allo stato attuale, consta soltanto di 5 articoli dedicati alla tutela degli animali, oltre poi ad altre (poche) discipline speciali, il ché, tuttavia, non significa di essere arrivati al traguardo delle superiori intenzioni. Difatti il cammino per riconoscere ed assicurare all’animale di compagnia, in quanto essere senziente, un benessere omogeneo, concreto ed adeguato è sicuramente ancora molto lungo, ispido ed ostacolato dalla stessa politica e dal progresso economico, non soltanto nel Bel Paese, ma anche nel resto d’Europa ed oltre i suoi confini, in cui sono ancora vigenti diversi tipi di manifestazioni, culturali e tradizionalistiche, con animali costretti a subire barbaramente l’atroce e crudele furia umana.
Ai fini esplicativi, e ne basta solo uno: la vicina Spagna, patria nazionale della “corrida”, dove venivano scarificati oltre 10.000 tori all’anno solo per puro divertimento, almeno fino al 2010, anno in cui è stata approvata una iniziativa popolare, con la raccolta di quasi 200.000 firme, con la quale la regione Catalogna aveva abolito lo svolgimento della manifestazione in questione a partire dal 2012. Legge che, tuttavia, è stata annullata dal Tribunale Costituzionale solo 6 anni dopo ripristinando in toto la tradizione in quanto considerata parte integrante del patrimonio culturale della Spagna tutta. L’esempio della corrida spagnola è sicuramente quello più pregnante, per la sua evidente conoscenza mondiale, a tal punto che è stata “emulata” anche oltre i suoi confini territoriali, ma non tutti conoscono l’esistenza di tante altre tradizioni popolari, svolte in quasi tutte le regioni italiane, nelle quali ci si diletta nell’assicurare divertimento alla popolazione costringendo animali innocui ed indifesi a comportamenti disumani e contro natura, procurando loro sofferenza inutile.
Ciò che si auspica è un intervento, da parte di chi ne ha l’autorità e, soprattutto, la responsabilità, forte e concreto, definitivamente teso ad assicurare un sistema di tutela, tout court inteso, dell’animale in genere.
Avv. Manuela Stumpo