Cittadinanza italiana ed effetti della “Grande Naturalizzazione” brasiliana
1. Premessa
L’emigrazione italiana in Brasile fu un fenomeno migratorio che toccò il suo apice nel periodo che va dal 1880 ed il 1930.
Nel XIX secolo l’Europa viveva in grande povertà e la causa era l’alta crescita della popolazione che andava di pari passo con il processo di industrializzazione al quale i cittadini europei non erano preparati. Inizialmente si cercò lavoro nelle città e nei paesi vicini ma a nulla servirono questi sforzi, infatti in molti optarono per un’emigrazione transoceanica, principalmente negli Stati Uniti d’America, Canada, Argentina ed in Brasile.
C’è da dire che il Brasile incentivò tale fenomeno in quanto adottò una tattica di “immigrazione sovvenzionata” pagando gli immigrati che entravano nel paese. Il Brasile era un paese che offriva molto lavoro a quei tempi poiché lo scopo era quello di reperire la manodopera necessaria e colonizzare i terreni incolti, oltre che ad aumentare il numero dei bianchi nella popolazione.
L’immigrato italiano era favorito non solo perché bianco, ma anche perché cattolico, ecco perché in Brasile sono presenti molte delle tradizioni italiane e vi è un’alta percentuale della popolazione identificata come italo-brasiliana.
2. La vicenda contenziosa
I Signori L.R.R.F. ed L.L.R., in quanto discendenti in linea diretta del cittadino italiano A.A.M., emigrato in Brasile alla fine dell’800 ma nato in Italia e figlio legittimo di padre italiano, avevano presentato domanda di riconoscimento iure sanguinis della cittadinanza italiana al Tribunale di Roma. L’ordinanza ad essi favorevole, emanata dal Tribunale, è stata poi oggetto di impugnazione da parte del Ministero dell’Interno e dal Ministero degli affari esteri. Il ricorso era stato accolto dalla Corte d’appello di Roma la quale, con sentenza n. 5221/2021, depositata il 15/07/2021, respinse la domanda di riconoscimento della cittadinanza italiana.
La motivazione della Corte d’Appello di Roma faceva leva sul provvedimento di grande naturalizzazione avvenuto in Brasile nel 1889 con il quale tutti i soggetti residenti sul territorio del paese hanno acquisito la cittadinanza brasiliana e questo ha comportato la conseguente rinuncia tacita della cittadinanza italiana, ai sensi dell’art. 11 c.c. del 1865 (ormai abrogato). Inoltre, i soggetti in questione avevano accettato, così come il padre, un impiego dal governo estero senza permissione del governo italiano.
Avverso questa sentenza è stato proposto ricorso per cassazione, da parte dei soccombenti, sulla base di quattro motivi. Il ricorso è stato ritenuto meritevole di accoglimento e, per la particolare importanza della questione sottesa, la causa fu rimessa alle Sezioni Unite.
3. Violazione o falsa applicazione dell’art. 11 c.c. abr.
Secondo quanto affermato dalla corte d’appello di Roma, A.M.A. aveva a suo tempo perso la cittadinanza italiana a causa del provvedimento normativo di grande naturalizzazione, ossia il decreto n.58-A del 1889 e che, avendo vissuto in Brasile fino alla morte, avesse ormai stabilito lì la propria vita sociale, familiare e lavorativa, godendo dei diritti civili e politici.
La c.d. “Grande Naturalizzazione” è stata introdotta con il Decreto n. 58 del 15.12.1889 dal Governo provvisorio brasiliano. Secondo tale decreto, tutti gli stranieri, compresi gli italiani, presenti sul territorio brasiliano alla data del 15.11.1889, giorno di proclamazione della Repubblica, avrebbero ottenuto la “naturalizzazione” automatica brasiliana a meno che non avessero manifestato entro sei mesi, dinanzi ai rispettivi consolati, la volontà di mantenere la cittadinanza d’origine e non quella brasiliana. La naturalizzazione brasiliana comportava, ovviamente, il riconoscimento di tutti i diritti civili e politici di un cittadino brasiliano.
Si configurò, pertanto, nel caso di specie la cosiddetta “accettazione tacita” della cittadinanza brasiliana con automatica rinuncia, alla luce del disposto del menzionato art. 11 c.c. abr., di quella italiana. Con questa decisione la Corte d’appello di Roma non aveva adeguatamente preso in considerazione la decisione dell’allora Corte di cassazione di Napoli, riguardo un caso analogo, con sentenza datata al 1907. Quest’ultima aveva affermato che non si potesse presumere la rinuncia alla propria cittadinanza tramite una mera inerzia, quindi tacitamente, ma solo tramite una libera espressione di volontà.
La cittadinanza, come affermato dalla suprema Corte di cassazione, “è una qualità, attribuita dalla legge, che indica l’appartenenza di un soggetto a uno Stato. Ad essa corrisponde un patrimonio variabile di diritti e doveri di matrice pubblica e costituzionale”. Ad oggi, ai sensi della L. n.91 del 1992, è cittadino per nascita il figlio di padre o madre cittadini oppure chi sia nato nel territorio italiano da genitori ignoti o apolidi. Da ciò deriva il riconoscimento della c.d. doppia cittadinanza, fenomeno inevitabile e conseguente allo sviluppo ed all’evoluzione del diritto internazionale. Si può quindi affermare che la cittadinanza per fatto di nascita si acquisisca per titolo originario ed essa abbia natura permanente ed imprescrittibile, ad eccezione dell’estinzione come effetto della rinuncia.
Sulla base di quanto sinora detto è doveroso fare un preciso chiarimento sulla precedente disciplina contenuta nell’art. 11 del codice civile ormai abrogato; quest’ultima non prendeva in considerazione la possibilità, per un soggetto, di avere la doppia cittadinanza, previsione legislativa decisamente arretrata e difforme rispetto ai principi ed agli orientamenti giurisprudenziali internazionali ad oggi vigenti.
L’art. 11 c.c. abr., infatti, stabiliva che: “La cittadinanza si perde:
1. Da colui che vi rinunzia con dichiarazione davanti l’uffiziale dello stato civile del proprio domicilio, e trasferisce in paese estero la sua residenza;
2. Da colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero;
3. Da colui che, senza permissione del governo, abbia accettato impiego da un governo estero, o sia entrato al servizio militare di potenza estera”.
Quando si fa riferimento alla voce del verbo “ottenere” si presume che alla base vi sia stata un’azione positiva, un comportamento attivo, una manifestazione di volontà esplicita che abbia portato il soggetto ad ottenere ciò che voleva. Nel caso di specie è stato attribuito un significato volontaristico ad un comportamento che ne era privo, ossia al silenzio, un atteggiamento passivo e tacito che non può esprimere alcuna volontà, né positiva né negativa. La sola legge può attribuire un significato al silenzio, ma ciò non è stato fatto dal legislatore nell’art. 11 c.c. abr.; l’acquisizione della cittadinanza brasiliana non era avvenuta, a su tempo, per un’espressa manifestazione di volontà del soggetto, ma per una disposizione di legge e, di conseguenza, non si può presumere la rinunzia della cittadinanza italiana. La Corte di cassazione di Napoli diede, nel 1907, questa interpretazione alla norma in esame, conclusione che va ancora condivisa anche se a distanza di oltre un secolo.
Il diritto di cittadinanza appartiene al novero dei diritti fondamentali e, in quanto tale, non può essere soggetto a presunzioni automatiche, essa è identificabile come un diritto soggettivo permanente e imprescrittibile. Le Sezioni Unite hanno seguito l’orientamento giurisprudenziale prevalente, al contrario della Corte d’appello capitolina, secondo il quale “la rinunzia alla cittadinanza, anche se associata all’accettazione di quella straniera, suppone la volontarietà del fatto posto a suo fondamento, sicché la cittadinanza mai può dirsi perduta dal cittadino ove a questi sia stata semplicemente impartita una cittadinanza straniera non a seguito di una sua domanda ma per concessione dello stato straniero in base ad una legge in esso vigente” (Cass. Sez. U n. 5250/79, Cass. Sez. I n. 22271/16 e Cass. Sez. I n. 6205/14).
Al richiedente la cittadinanza italiana, inoltre, spetta solo l’onere di dimostrare la discendenza di sangue con l’avo italiano, necessaria per il riconoscimento del suo diritto acquisito alla nascita in quanto figlio di italiano. La presenza di eventuali rinunce alla cittadinanza, per espressa volontà, non deve essere provata da quest’ultimo, ma dalle controparti, volontà che non è stata da questi provata.
La Corte d’appello di Roma aveva basato la sua decisione anche sul fatto che vi fosse stata l’accettazione, senza permissione del governo italiano, di un posto d’impiego da parte del governo estero, affermando che “per governo si deve intendere non tanto l’amministrazione pubblica, ma effettivamente l’organo di governo che regolamenta e consente al cittadino straniero di vivere e lavorare nel paese ove è emigrato” fornendo, anche in questo caso, un’interpretazione errata. L’accettazione di un impiego da parte di un governo estero deve essere intesa, sia nell’art. 11, n. 3, della previsione codicistica del 1865, sia nell’art. 8 l. n. 555 del 1912, come “impieghi governativi strettamente intesi, quelli cioè che avessero posto la persona alle dirette dipendenze del governo estero nonostante il difetto di autorizzazione del governo italiano”.
4. La decisione della Corte di Cassazione
La sentenza della Corte d’appello di Roma, dunque, è stata ribaltata: è stata disposta, dalle Sezioni Unite, relatore Dott. Francesco Terrrusi, la sua cassazione con conseguente rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, per un nuovo esame.
Quest’ultima, nella formulazione della nuova decisione, si dovrà attenere ai principi sanciti dalla Suprema Corte:
1) la cittadinanza per fatto di nascita si acquisisce a titolo originario iure sanguinis e tale status ha natura permanente e imprescrittibile. Chi chiede tale riconoscimento deve provare solo “il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione”, mentre spetta alla controparte provare i fatti che hanno fatto cessare tale status;
2) la stabilizzazione all’estero della propria vita sociale, economica e familiare, con tanto di stabilizzazione della residenza, non rappresenta la volontà di voler rinunciare alla cittadinanza italiana, né tanto meno di voler ottenere la cittadinanza dello stato estero per effetto di un’accettazione tacita;
3) essendo il diritto di cittadinanza un diritto soggettivo permanente ed imprescrittibile la sua rinuncia può avvenire solo tramite una libera ed esplicita manifestazione di volontà e, quindi, mai per rinuncia tacita;
3) la perdita della cittadinanza italiana può essere correlata all’accettazione di un “impiego da un governo estero” intesi come impiego governativo strettamente inteso quali l’assunzione di pubbliche funzioni all’estero tali da imporre obblighi di gerarchia e fedeltà verso lo Stato straniero, di natura stabile e tendenzialmente definitiva. Tale fattispecie non deve essere integrata con qualsivoglia attività di lavoro, pubblico o privato che sia.
La sentenza in esame è solo una delle due sentenza gemelle emanate dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, precisamente le sentenza del 24 agosto 2022 n. 25317 e n. 25318. Con queste ultime la Corte ha finalmente dato un’interpretazione chiara e precisa in marito agli effetti del decreto della cosiddetta “grande naturalizzazione” la quale, ad oggi, non rappresenta più un limite al riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis per gli italo-brasiliani. Con questa sentenza sono stati stabiliti dei principi di diritto che bisogna necessariamente osservare in merito al riconoscimento della cittadinanza italiana per discendenza di avo italiano e, inoltre, al forte significato giuridico che deve essere dato all’espressa manifestazione di volontà quando si tratta di un diritto che ha natura permanente e imprescrittibile.
“La perdita della cittadinanza, come delineata dal codice civile del 1865 e dalla successiva l. n. 555 del 1912 in relazione alla c.d. «grande naturalizzazione» degli stranieri operata in Brasile alla fine dell’ottocento, implica l’accertamento di un atto spontaneo e volontario finalizzato all’acquisto della cittadinanza straniera, non ritenendosi sufficiente per l’interruzione della linea di trasmissione iure sanguinis ai discendenti l’accettazione tacita degli effetti di un provvedimento straniero; la volontà abdicativa alla cittadinanza originaria italiana deve essere manifestata con comportamenti in forma espressa”.
“Posto che la cittadinanza italiana per fatto di nascita si acquista a titolo originario iure sanguinis e lo status di cittadino, una volta acquisito, si rivela permanente, imprescrittibile e rivendicabile in qualsiasi momento, chiunque abbia un interesse ad ottenere la cittadinanza è tenuto a dare prova del solo fatto acquisitivo e della linea di trasmissione; al contrario, incombe alla controparte, che ne abbia fatto eccezione, dimostrare l’eventuale esistenza di una fattispecie interruttiva della linea di trasmissione iure sanguinis risalente all’avo”.
“Dagli artt. 3, 4, 16 e ss. e 22 Cost., dall’art. 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 e dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, si ricava che ogni persona ha un diritto soggettivo permanente e imprescrittibile allo stato di cittadino, che congloba distinti ed egualmente fondamentali diritti; ciò rileva anche in relazione all’esegesi delle norme dello Stato precostituzionale, ove ancora applicabili; il diritto si può perdere per rinuncia, ma purché volontaria ed esplicita, in ossequio alla libertà individuale, e quindi mai per rinunzia tacita, a sua volta desumibile da una qualche forma di accettazione tacita di quella straniera impartita per provvedimento generalizzato di naturalizzazione”.
“Spetta a ciascuno Stato determinare le condizioni che una persona deve soddisfare per essere riconosciuta titolare della sua cittadinanza, col limite rappresentato dall’esistenza di un collegamento effettivo tra quello Stato e la persona di cui si tratti. È compito della legislazione nazionale stabilire quale sia questo collegamento. Il principio di effettività della cittadinanza richiede che esista un vincolo reale tra lo Stato e l’individuo sulla base di indici idonei a far risaltare la cittadinanza al di là del dato formale”.
“La perdita della cittadinanza italiana per l’accettazione di un impiego da parte di un governo estero, senza permissione del governo italiano, deve essere intesa, sia nell’art. 11, n. 3, della previsione codicistica del 1865, sia nell’art. 8 l. n. 555 del 1912, con riguardo agli impieghi governativi di natura stabile e tendenzialmente definitiva, che abbiano come conseguenza l’assunzione di pubbliche funzioni all’estero tali da imporre obblighi di gerarchia e fedeltà verso lo Stato straniero”.
Dott.ssa Rosamaria Giacobbe