A Don Franco, il ricordo di Eugenio Facciolla
“La tradizione di un grande avvocato di questa città deve continuare anche così…avete una grande responsabilità”
6 novembre del 2000, sono le 9.00, tribunale di Cosenza , ho un processo nell’aula di corte di Assise, arrivo nell’atrio e incontro l’avvocato, don Franco, come lo chiamano i clienti più vecchi, mi vede e subito con il suo sorriso bonario nascosto dietro quella barba folta sul mento che solo chi lo conosceva bene riusciva a scorgere, mi viene incontro ‘ Signor Procuratore buongiorno ‘ , rispondo ‘ avvocato buon giorno, io sono sempre Eugenio o semplicemente ‘Ge’, come mi chiamavate quando stavo a studio’ e lui di rimando ‘qui dentro voi siete il Procuratore’ . Saluti formali, convenevoli, sentiti, affettuosi, tra chi aveva un profondo rispetto dei ruoli e, da parte sua, il sacro rispetto della funzione del magistrato.
Era l’avvocato Francesco Vetere.
Dopo via, ognuno per i suoi impegni, io Pm nel mio processo in Assise, lui difensore davanti al collegio penale. Non potevo immaginare che dopo qualche minuto avrebbe fatto irruzione nell’aula il mio capo scorta, il brigadiere Enrico Sulla, altro mio amico che la morte si è portato via troppo presto, per dirmi che l’avvocato Vetere , il mio avvocato, aveva avuto un malore nell’altra aula. Si sospende l’udienza e corriamo in tanti, fasi concitate, tanti immobilizzati dalla scena, si pensava a un malessere, a qualcosa di passeggero, mi era capitato spesso di accompagnarlo nella mia pratica forense, per le aule calabresi, e conoscevo la passione, la forza, il ‘carattere’ che metteva nel suo lavoro , sempre preparato, sempre a conoscenza della causa e delle problematiche da affrontare, e meticoloso nella discussione; e quando finiva la discussione a volte lo vedevo davvero stremato, ma subito si riprendeva per tornare a studio e continuare il suo lavoro con rinnovata energia, ‘Ge’ domani abbiamo quel processo …’ ; la realtà di quel giorno era purtroppo ben altra, l’ avvocato ci aveva lasciato, e aveva scelto di farlo a suo modo, in tribunale mentre faceva l’avvocato, senza avvisare e senza salutare, con la toga addosso, la sua seconda pelle.
La morte spesso ci coglie così, all’improvviso, senza alcun presagio; e passato il senso di smarrimento, drammatico, del grande dolore per la perdita di una persona cara, del maestro, dell’amico, piano piano si fa strada nel tempo il ricordo di tutto ciò che ci ha legato a quella persona, le cose belle, i momenti felici, i successi e le sconfitte professionali , e anche le cose di vita, si di vita, perché chi è innamorato del suo lavoro finisce per condividere con chi gli sta attorno per giornate intere anche i problemi, le ansie, le aspettative. Giornate trascorse assieme, spostandoci da un tribunale all’altro, le discussioni in macchina prima del l’udienza, e al ritorno i commenti su come era andata, i pomeriggi a studio a ricevere i clienti e poi fino a tarda sera per preparare le udienze del giorno dopo, quando arrivavi alle 7,30 e scoprivi che lui era già lì dalle 6,00 con la sua immancabile spremuta di arance di Corigliano. Esigente, a volte burbero, ‘rispondi solo se sei preparato sulla causa, non improvvisare mai’, il suo leit motiv , ma sempre propositivo e pronto alla battuta; uomo di cultura, di spirito, diritto, politica, cronaca, con lui poteva capitare di parlare e commentare di tutto.
La mia pratica legale con l’avvocato è stata questa, e l’avvocato era quello che pur non apprezzando la mia scelta di provare la strada della magistratura faceva di tutto per contribuire alla mia formazione, più ampia possibile, civile, penale, amministrativa; sapeva quanto ci tenessi; le discussioni tra noi sul ‘funzionario di fatto’ o sulla ‘fideiussione omnibus’, o sulla ‘reintegra nei licenziamenti’ o sul ‘recesso e resistenza nel reato’, lo appassionavano al punto che a volte trovava il tempo di chiamarmi perché aveva trovato una sentenza o qualche scritto interessante da farmi leggere; e al tempo stesso si interessava lui come un giovane avvocato; io facevo pratica, ma lui non finiva mai di voler conoscere , di imparare , di confrontarsi, ed era contento del nostro rapporto al punto che quando gli comunicai di aver superato il concorso mi disse d’istinto che era felice per me ma al contempo era dispiaciuto perché per lui sarei diventato un ottimo avvocato.
E mi piace pensare che forse aveva ragione lui.
Ma non era solo l’avvocato che ti istruiva alla pratica legale e alle strategie difensive, era la persona fidata che ti dava le dritte per muoverti nei meandri delle cancellerie, che ti consigliava e ti metteva in guardia verso un mondo ben diverso da quello che immagina un giovane laureato in giurisprudenza, pieno di insidie, falsità, scorrettezze, ti spiegava se e come fidarti di un collega anche per un semplice rinvio, ti insegnava che la rivalità e lo scontro con il collega devono rimanere sempre nell’aula, ti esortava a muoverti nelle cancellerie con educazione ma con fermezza, ti spiegava quanto fosse importante un verbale di causa, assistere a una esecuzione forzata, a non perdere di vista il fascicolo della causa civile nel caos dell’udienza; erano insomma le esperienze di una vita sul campo di battaglia, che consegnava a noi praticanti senza risparmio, senza gelosia, insegnamenti che poi avrei impiegato sul campo solo dopo qualche anno, stando dall’altra parte della barricata.
È mancato l’avvocato in questi anni, è mancato alla sua famiglia, ai suoi figli, ai suoi amici, ai colleghi, a tanti giovani laureati, e credo che la sua figura sia mancata a tutto il foro cosentino; avvocato d’altri tempi, di quella specie ormai in via di estinzione, sempre signorile nei modi ma al tempo stesso fiero della sua professione, difensore orgoglioso dei diritti dei suoi assistiti, nel reciproco rispetto dei ruoli con tutti gli operatori del diritto, a volte presenza davvero ingombrante.
E allora voglio ricordarlo così oggi, grato per i suoi insegnamenti, come ne ho parlato spesso, e per quello che ricordo e per quello che ho vissuto.
Eugenio Facciolla