La parità di genere nella scrittura degli atti giudiziari: risponde l’Accademia della Crusca
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Il Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione ha rivolto un quesito su un tema piuttosto controverso all’Accademia della Crusca: nella redazione degli atti giudiziari è corretto tenere una scrittura rispettosa della parità di genere?
Si tratta di un interrogativo, oramai datato, ma sempre molto attuale e sentito, che corrisponde, secondo alcuni, ad un’ulteriore declinazione del politically correct, e, secondo altri, ad una piccola rivoluzione rispetto a quella che è una mera consuetudine sessista.
L’Accademia della Crusca ha prontamente dato risposta all’enigma prospettatole dalla Suprema Corte e ha affermato che chi opera nel settore del diritto, nell’amministrazione della giustizia, nella burocrazia delle pubbliche istituzioni si trova ogni giorno a fare i conti con la prospettiva di genere relativa all’uso del linguaggio, motivo per il quale ha ritenuto doveroso offrire soluzione al quesito.
Anzitutto, l’Accademia ha rammentato quali fossero i principi tradizionalmente utilizzati per stabilire come si debba scrivere nel pieno rispetto della parità di genere. Si tratta di principi ripresi dal modello proposto nel 1986-87 da Alma Sabatini, attivista femminista, linguista, saggista e insegnante romana, che, a sua volta, si inspirò al modello anglosassone.
Questi sono quattro e sono:
1) evitare in maniera assoluta il maschile singolare perché a torto considerato non marcato (da alcuni definito inclusivo o, meno correttamente, neutro);
2) evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi femminili, perché genera un’asimmetria con quelli maschili;
3) accordare il genere degli aggettivi con quello dei nomi che sono in maggioranza o più vicini all’aggettivo;
4) usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne.
Dopo aver citato tali assiomi, sottolinea che il loro scopo è “rompere qualunque eventuale asimmetria che distingua il riferimento ai due generi, maschile e femminile, intesa come discriminazione”.
Ciononostante, l’Accademia si è altresì riservata di ricordare che, in accordo alla visione delle neuroscienze moderne, i dibattiti instauratisi attorno al linguaggio di genere confluiscono in mode culturali, date dall’aspirazione al politicamente corretto.
Fatte tali breve premesse, la Crusca si è occupata di fornire precise indicazioni pratiche: prima tra tutti, quella di evitare le reduplicazioni retoriche, vale a dire evitare i riferimenti raddoppiati ai due genere (es. lavoratori e lavoratrici). In alternativa si può ricorrere ad altre forme neutre o generiche o al maschile plurale inclusivo.
Secondariamente, ha raccomandato di omettere l’articolo determinativo davanti ai cognomi di donne, prassi ormai consolidata anche di fronte a cognomi maschili, in quanto ritenuta discriminatoria e offensiva.
Ha poi preso in considerazione i segni eterodossi e la conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre. In ordine ai primi ha affermato che “è da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati”.
A tal proposito, sono da segnalare l’asterisco, inserito al posto delle desinenze dotate di valore morfologico, nonché lo schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale.
La ragione è che l’italiano è una lingua contraddistinta da due generi, il maschile e il femminile, così come dalla distinzione di numero, singolare e plurale, e lo strumento idoneo a far sentire rappresentati tutti i generi e gli orientamenti è, ad avviso della Crusca, il plurale maschile non marcato, al fine di includere e non prevaricare.
Infine, ha avuto modo di sancire altresì l’“uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile”. Questa la questione maggiormente dibattuta ad oggi dai più, che, finalmente, pare aver trovato soluzione nella risposta dell’Istituzione linguistica alla questione posta dal Comitato pari opportunità del Supremo consesso. La Crusca ha stabilito che deve trovare attuazione il ricorso sempre più esteso all’utilizzo ai nomi di professione declinati al femminile, come ad esempio magistrato-magistrata, avvocato-avvocata, procuratore-procuratrice, Pubblico Ministero-Pubblica Ministera.
Ci si chiede se la soluzione indicata sia ritenuta degna di essere condivisa oppure no.
Sicuramente non mancherà chi si chiederà se suonino bene alcune professioni declinate al femminile oppure no; ad ogni modo, secondo Marazzini, “è solo questione d’abitudine”, e, allora, occorre abituarsi.
Marika Capparelli