Danno da vaccino: l’ultima pronuncia della Corte Costituzionale, sentenza del 06/03/23 n. 35 (ud. 09/02/23)
“Il termine triennale di decorrenza per la richiesta di indennizzo del danno da vaccino decorre dal momento in cui l’interessato ha avuto conoscenza non solo del danno, ma anche della sua indennizzabilità”
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha sollevato in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati), nella parte in cui non prevede che la decadenza triennale del diritto all’indennizzo per danni vaccinali abbia effetto limitato ai ratei interni al triennio, ossia abbia un effetto decadenziale limitato a singole parti della prestazione economica oggetto del diritto.
Più specificatamente, il Supremo Consesso sollevava tale questione in un giudizio avente ad oggetto la richiesta di indennizzo presentata dai genitori di una bambina danneggiata dal vaccino contro il morbillo. Tale pretesa risarcitoria era stata formulata oltre il triennio da quando si era manifestato il danno, ma prima che quest’ultimo fosse dichiarato indennizzabile dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 107 del 2012, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 210/ 1992, nella parte in cui non prevedeva l’indennizzabilità del danno cagionato dalla vaccinazione contro il morbillo, la parotite e la rosolia, all’epoca non obbligatoria.
In particolare, sulla base della norma censurata (art. 3, comma 1, L. 210/1992) si sarebbe dovuta ritenere la parte istante decaduta dal diritto ad ottenere l’indennizzo nella sua interezza, senza possibilità di limitare la suddetta decadenza alle mensilità maturate prima del triennio.
Per quanto concerne lo svolgimento del processo strictu sensu, la Corte rimettente, nel caso di specie, si trovava a dover decidere sul ricorso proposto dal Ministero della salute avverso una sentenza d’appello che, nel confermare la decisione di primo grado, aveva ritenuto corretta l’applicazione all’indennizzo chiesto oltre il termine triennale (previsto ex lege) il criterio della “decadenza mobile” stabilito per i trattamenti pensionistici, in virtù del fatto che le due erogazioni pubbliche (pensionistica ed indennitaria) avrebbero lo stesso fondamento costituzionale.
In ossequio al suddetto criterio, la causa estintiva del diritto opererebbe limitatamente ai ratei interni al triennio (e, nel caso concreto, non lascerebbe la minore priva di qualsivoglia sostegno economico); per contro, un “effetto decadenziale unitario” (ossia non limitato a singole parti della prestazione economica oggetto del diritto) come quello stabilito dalla norma censurata avrebbe prodotto un’irragionevole disparità di trattamento tra i soggetti destinatari dell’indennizzo ed i pensionati.
Pertanto, atteso il silenzio della norma evocata, la quale “non fa cenno alcuno ad un effetto decadenziale limitato alle singole parti della prestazione economica oggetto del diritto”, (c.d.: effetto d. mobile) gli Ermellini – con ordinanza del 17.01.2022 iscritta al n. 33 del registro ordinanze 2022 – sollevavano la questione di legittimità costituzionale alla Consulta.
Infatti, il Supremo Consesso, chiamato a decidere sul precitato ricorso erariale avverso la sentenza di conferma dell’applicazione all’indennizzo vaccinale della decadenza “mobile” – che estingue il diritto indennitario limitatamente ai ratei pregressi – assumeva che tale criterio, previsto originariamente per i trattamenti pensionistici, non potesse essere esteso in via interpretativa all’indennizzo da vaccino.
Stante la delicatezza della questione oggetto del rinvio, interveniva in giudizio, in primis, il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale chiedeva espressamente che le questioni di legittimità costituzionale venissero dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.
L’inammissibilità sarebbe dipesa da una – presunta – incongruenza tra la motivazione ed il dispositivo dell’ordinanza di rimessione alla Consulta, nonché dal fatto che il remittente non confrontando l’eterogeneità tra pensione ed indennizzo, non avrebbe tenuto conto della disciplina del “tertium comparationis”. Per contro, l’infondatezza delle questioni sarebbe derivata da una molteplicità di fattori, tra cui il diverso fondamento costituzionale delle erogazioni in discussione (Art. 23 Cost. per l’indennizzo e Art. 38 Cost. per la pensione) e la loro diversa natura.
In ultimis, l’interveniente sottolineava che una pronuncia di accoglimento delle sollevate questioni, con conseguente estensione della decadenza mobile all’indennizzo del danno vaccinale, avrebbe determinato – alla luce della platea dei soggetti interessati – un notevole impatto organizzativo ed un aggravio di oneri per la finanza pubblica, lasciando intendere che quest’ultima era la maggiore preoccupazione e perciò sarebbe stato preferibile optare per il criterio della “decadenza tombale”.
In secondo luogo, si costituivano in giudizio gli esercenti la responsabilità genitoriale sulla minore danneggiata dal vaccino contro il morbillo, parte del giudizio nell’ambito del quale è stata sollevata la questione, i quali chiedevano l’accoglimento delle questioni sulla base di una serie di presupposti, primo fra tutti l’imprescrittibilità del diritto all’indennizzo quale erogazione assistenziale, il quale, dunque, dovrebbe poter decadere unicamente per singoli ratei, mai per l’intero.
Più specificatamente – a parer degli istanti – applicando la decadenza c.d. tombale si negherebbe ingiustificatamente la prestazione atteso che, il dies a quo del termine di decadenza del diritto all’indennizzo dovrebbe coincidere con la pubblicazione della precitata sentenza n. 107/2012 della Corte Costituzionale, tramite la quale è stato definitivamente riconosciuto il diritto all’indennizzo per i danneggiati da vaccinazioni non obbligatorie.
Pertanto, alla luce delle suesposte motivazioni, questi concludevano specificando che, senza l’applicazione del criterio della decadenza “mobile” la minore danneggiata resterebbe priva di qualsivoglia sostegno economico, per effetto di una decadenza “tombale” che, al tempo della domanda, era puramente virtuale.
Ancora, intervenivano ad adiuvandum l’Associazione malati emotrasfusi e vaccinati (AMEV), il Coordinamento nazionale danneggiati da vaccino (CONDAV ODV) e l’associazione di studi e informazioni sulla salute (ASSIS APS), i quali, depositando opinioni in qualità di amici curiae, sostenevano l’ammissibilità e rilevanza della questione trattata. In realtà – come rettamente affermato dalla Consulta nella sentenza in commento – l’intervento ad adiuvandumdell’AVEM veniva dichiarato inammissibile in virtù del fatto che l’associazione medesima non fosse titolare di alcun interesse qualificato o differenziato nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
Fermo restando l’importanza di un dibattito su una questione così delicata, è lapalissiano che la conseguenza di dover ritenere l’istante decaduta dal diritto all’indennizzo nella sua interezza appare incompatibile con gli evocati parametri.
Ed infatti, nei motivi della sentenza oggetto di analisi emerge che – considerato l’analogo fondamento costituzionale delle due erogazioni – una disparità di trattamento sul piano dell’incidenza dell’effetto decadenziale sarebbe irragionevole.
Pur tuttavia, prima di esaminare il merito della questione sottesa al nostro esame – e capire quali siano le reali motivazioni sottese alla dichiarazione di incostituzionalità del precitato art. 3, comma 1, L. 210/1992 – giova spendere qualche parola relativamente ad alcune eccezioni sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, ossia, l’incertezza del petitum ed il suo – presunto – carattere manipolativo.
Per quanto concerne il primo punto, l’organo di Governo parlava di un’incongruenza tra il dispositivo e l’ordinanza di rimessione; in realtà giova evidenziare che l’omessa menzione dell’art. 3 Cost. nel dispositivo appare frutto di un mero errore materiale, risolvibile tramite l’impiego degli ordinari criteri ermeneutici.
Relativamente alla seconda censura, invece, l’Avvocatura affermava che la pretesa (o meglio, la sollevata questione) si tradurrebbe nella richiesta di un’additiva prestazione, con conseguente eventuale invasione della sfera di discrezionalità riservata al legislatore nella configurazione dei presupposti delle erogazioni pubbliche; l’adita Corte però, evidenziava che il punto di caduta delle sollevate questioni non riguardava la titolarità del diritto alla prestazione, ma unicamente l’eventuale estinzione di tale diritto per inosservanza delle condizioni normative di esercizio, proprio perché le questioni in scrutinio non tendono all’introduzione di una prestazione nuova, bensì all’attribuzione – nella fattispecie concreta – della prestazione conseguente alla sentenza n. 107 del 2012.
Infatti, non rilevano qui i maggiori oneri organizzativi e di finanza pubblica paventati dall’Avvocatura nell’atto di intervento, in quanto la giurisprudenza della Corte Costituzionale è costante nell’affermare “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” (In tal senso, sentenze n.275/2016; n.10/2022; n.142/2021; n.62/2020; n.169/2017).
Andando al fulcro della presente disamina – come affermato in premessa – il Supremo Consesso sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992 in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost. La Consulta riteneva fondate le questioni sollevate con riferimento ai soli parametri di cui agli artt. 2 e 32 Cost.
In particolare, la Corte, nelle motivazioni sottese alla pronuncia in esame, effettuava un excursus delle più rilevanti modifiche legislative e pronunce giurisprudenziali che si sono susseguite negli anni relativamente alla fattispecie de qua. In primis, richiamava la pronuncia costituzionale n. 307/1990 (la quale affermava la necessità di riconoscere un equo ristoro in favore del danneggiato da un trattamento sanitario obbligatorio) sulla cui base è stata promulgata la L. 210/1992, che riconosceva definitivamente il diritto ad un indennizzo a chiunque avesse riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie, lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica.
La legge in commento poi sottolineava che “i termini per chiedere l’indennizzo decorrono dal momento in cui l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno”.
Successivamente, poi, la Corte Costituzionale richiamava la L. 107/2012 che rappresentò il punto di partenza per l’applicazione delle disposizioni di cui alla precitata legge del ‘92 a tutti i soggetti danneggiati da vaccinazioni contro morbillo, parotite e rosolia (all’epoca non obbligatorie) infatti, la mancata previsione in queste ipotesi del diritto all’indennizzo si è risolta per anni in una grave lesione dei precetti costituzionali, ragion per cui l’indennizzabilità dei danni derivanti da vaccinazioni raccomandate è stata volta a completare il c.d. “patto di solidarietà” tra individuo e collettività in tema di tutela della salute.
Proprio sulla base delle suddette esigenze di solidarietà e tutela del singolo, ci si è resi conto che l’art. 3, comma 1, della legge n. 210/1992 – ove dispone che il termine di tre anni per la presentazione della domanda decorre dal pregresso momento di conoscenza del danno – pone una limitazione temporale che collide con la garanzia costituzionale del diritto alla prestazione stessa, ne vanifica l’esercizio e, in definitiva, impedisce il completamento del precitato patto sociale.
Osservava, la Corte, dunque, che l’effettività del diritto all’indennizzo impone di far decorrere il termine per la richiesta dello stesso dal momento in cui l’interessato ha avuto conoscenza non solo del danno, ma anche della sua indennizzabilità, in quanto, prima di tale momento tale diritto non è concretamente esercitabile.
Infatti, la compressione del diritto ad ottenere l’indennizzo nella fase antecedente alla sentenza n. 107 del 2012 si unisce l’illogica pretesa che gli interessati rispettassero un termine per la proposizione di una domanda relativa ad un indennizzo, per il quale, al momento in cui ebbero conoscenza del danno, non avevano alcun titolo.
Più specificatamente, la sentenza aggiunge che, una soluzione differente “vanificherebbe il diritto medesimo, viceversa garantito dai principi costituzionali di solidarietà sociale e tutela della salute, essendo il danno vaccinale un pregiudizio individuale sofferto nell’interesse della collettività, la quale deve pertanto farsene carico”.
Per tutto quanto esposto, in riferimento agli artt. 2 e 32 Cost., veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 210/1992, nella parte in cui, al secondo periodo, dopo le parole “conoscenza del danno”, non prevede “e della sua indennizzabilità”. Restavano, invece, assorbite le censure di incostituzionalità riferite agli artt. 3 e 38 Cost.
Dott.ssa Giovanna Vetere